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10 Dicembre 2024

Come cambia il modello Con certificazione e linee guida la responsabilità va al professionista

di Alessandro Germani


A quasi dieci anni dalla sua entrata in vigore (Dlgs 128/2015), la cooperative compliance cambia in modo importante, con le modifiche apportate dal Dlgs 221/2023. Vediamo di cosa si tratta.

Innanzitutto, occorre individuare la genesi dell’adempimento collaborativo. Il principio è invertire il meccanismo di interazione fra contribuente e agenzia delle Entrate. Si abbandona infatti la logica dell’accertamento su anni pregressi, che porta a dover ricostruire fattispecie e comportamenti ex post. Il tutto spesso dando vita a defatiganti contenziosi che, chiudendosi con tre gradi di giudizio, impiegano spesso parecchi anni per arrivare a definizione finale.

Il confronto preventivo

Così la cooperative compliance opera invece con un confronto ex ante, sulla base di un sistema di mappatura dei rischi fiscali che riguardano la singola entità, con un’interlocuzione preventiva fra le parti che deve avvenire necessariamente prima dell’invio della dichiarazione relativa a una determinata annualità. Tutto questo, in base a ciò che le evidenze dei soggetti già in cooperative compliance dimostra, abbatte le fattispecie che finiscono in contenzioso. Questo per i gruppi di più rilevanti dimensioni – sia nazionali sia esteri presenri in Italia – diventa un elemento fondamentale in tema di certezza del diritto, chiarezza dei rapporti col Fisco e reputazione in generale.

Agenzia da sgravare

Va considerato anche un altro cambiamento, oggetto del decreto di fine 2023. La cooperative compliance nasce come procedura in cui la certificazione del Tcf (tax control framework) era demandata all’agenzia delle Entrate. Di certo ne avrà impegnato massicciamente la struttura. Situazioni già viste con le vecchie procedure di patent box, che portavano alla firma del ruling dopo molto tempo.

È evidente che il cambio di impostazione che nasce dall’esigenza di abbassare le soglie dimensionali dei fruitori (si veda a pagina 13) abbia richiesto una logica differente.

La certificazione

Così si è passati ad un meccanismo che prevede la certificazione da parte del professionista abilitato. In questo modo, con l’obiettivo di passare da poco più di un centinaio di nominativi a qualche migliaio, il compito è sembrato più praticabile invertendo la situazione.

Ecco, quindi, che è nata la necessità di prevedere requisiti (onorabilità, professionalità, indipendenza) per i soggetti certificatori (si veda a pagina 5), con specifici percorsi di formazione che dovranno essere appositamente previsti. E che comportano una tematica di responsabilità per il professionista che certifica il Tcf (si veda l’articolo sotto).

Le linee guida

Da questo punto di vista, però, si è reso necessario prevedere anche un meccanismo che dia le linee guida di come debba essere compilato un tax control framework (articolo 4, comma 1-quater del Dlgs 128/2015). Pertanto, da un lato vi è l’esigenza di mantenere l’individualità della singola impresa, sulla base delle caratteristiche specifiche proprie e del sua business, nel predisporre la documentazione atta a far comprendere quali possano essere i rischi che corre e quali sono i presidi per fronteggiarli. Dall’altro lato, in un meccanismo in cui vige un sistema per così dire di autocertificazione, non poteva evitarsi di prevedere delle forme ad hoc, come contenuto minimo essenziale di linee guida, a cui i soggetti abilitati potranno e dovranno far riferimento.

Essendo comunque un lavoro di costruzione multidisciplinare e impegnativo, è ipotizzabile che l’impresa sia accompagnata anche da consulenti specializzati per la predisposizione del Tcf. Da questo punto di vista nell’ambito del Dm che prevede i requisiti dei certificatori abilitati è stato previsto che vi sia una netta separazione fra certificatore e advisor.

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